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Abstract. Se tutte le associazioni di counseling insistono sul porre dei limiti temporali e di obiettivi alla professione di counselor è perché, in assenza di tali limiti, l'intervento di counseling tende ad assomigliare pericolosamente a (fino ad essere sostanzialmente indistinguibile da) una psicoterapia. Questa evoluzione è un dato acquisito in Nord America, dove le professioni di psicoterapeuta e counselor sono quasi sovrapponibili – e nell'uso corrente i due termini sono di fatto intercambiabili – mentre è fortemente contrastata in Europa e particolarmente in Italia. E' molto probabile che nel lungo periodo la barriera tra le due professioni finisca per cadere anche in Europa, ma nel momento presente conviene prendere atto della realtà di un fossato insuperabile e regolarsi di conseguenza. Come? Da un lato è opportuno riconoscere che c'è un tipo di psicoterapia che è scientifica nel senso della scienze empiriche mediche e psicologiche: una psicoterapia basata sulla cura di disturbi patologici con procedure empiricamente validate per il trattamento di quei disturbi, di cui è pertanto giusto riservare l'esercizio a medici e psicologi.
Dall'altro c'è una cura diretta non a disturbi patologici, ma al disagio esistenziale, alle crisi evolutive e allo sviluppo delle potenzialità di individui e gruppi (empowerment), che è il campo specifico del counseling ma anche della psicoterapia di indirizzo esistenziale. E' necessario vedere nella cura di questo secondo tipo il naturale sviluppo delle competenze di counseling: una cura che si basa sugli stessi principi fondamentali del counseling, ma ne supera i limiti autoimposti grazie a un supplemento formativo che porta l'iter complessivo a livelli paragonabili a quelli delle scuole di psicoterapia. Psicologi e medici possono giustamente rivendicare l'esclusiva della psicoterapia scientifica (nel senso delle scienze empiriche), ma non hanno alcun titolo per rivendicare quello della cura esistenziale (che è scientifica anche questa, ma nel senso delle scienze fenomenologiche). Se c'è qualcuno che ha la preparazione adatta per questo tipo di cura sono proprio i counselor, che devono prendere coscienza della propria identità scientifico-culturale e farne la base per lo sviluppo di una professionalità che superi i limiti attualmente imposti alla loro professione. Tale sviluppo dovrà necessariamente collegarsi a una proposta legislativa che aggiorni e superi la 56/89 alla luce della 4/13.
Vorrei introdurre le mie considerazioni di oggi con i primi versi, che probabilmente sapete tutti a memoria, di una une delle più belle poesie che siano mai state scritte.
Sempre caro mi fu quest'ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura.
In questi versi troviamo tre elementi chiave della situazione esistenziale: il limite, ciò che sta oltre il limite, e la paura dell’illimitato. Vediamo come giocano questi tre elementi nella problematica del counseling. Prima di tutto il limite. Tutte le associazioni di counseling si preoccupano di stabilire dei limiti temporali e di obiettivi alla professione di counselor. Il che è, indubbiamente, sacrosanto, se consideriamo ciò che può essere fatto da un professionista che ha avuto una formazione di settecento ore. Tuttavia, se fosse questo il motivo principale, basterebbe offrire dei corsi supplementari oltre le settecento ore previste, per esempio raddoppiandole a millequattrocento, per far cadere quei limiti per quei counselor, e non sarebbero pochi, che desiderassero affacciarsi oltre la siepe che chiude il loro orizzonte. Ora, i corsi supplementari ci sono, ma i limiti restano: è la prova, se ce ne fosse bisogno, che ciò che li mantiene è altro. Che cosa? Non è difficile capirlo. Se le associazioni di counseling insistono sull’invalicabilità dei limiti è perché, in assenza di tali limiti, l'intervento di counseling tende ad assomigliare pericolosamente a una psicoterapia, fino ad esserne sostanzialmente indistinguibile.
Questa evoluzione è un dato acquisito in Nord America, dove le professioni di psicoterapeuta e counselor sono quasi sovrapponibili e i titoli nella pratica quasi intercambiabili – salvo una maggiore enfasi sulla patologia nell’una e sull’empowerment nell’altro – mentre è fortemente contrastata in Europa e particolarmente in Italia. Dunque, che cosa c’è oltre la siepe? C’è la psicoterapia, una pratica virtualmente illimitata nel tempo e negli obiettivi. E perché il counselor ne ha tanta paura? Naturalmente perché lo sconfinamento nella psicoterapia in Italia significa esercizio abusivo di una professione che la legge 56/89 riserva esclusivamente a medici e psicologi. Ma la paura di trasgredire un limite legale ha due lati, uno formale e l’altro sostanziale. Per esempio se stiamo guidando e vediamo un cartello che indica un limite di velocità di cinquanta all’ora, rallentiamo per due motivi: primo per la paura di prendere una multa, e secondo per quella di provocare un incidente guidando a una velocità superiore a quella consentita da questo tipo di strada.
Ora, il motivo formale e quello sostanziale non sempre e non necessariamente coincidono. Accade anzi regolarmente che a poco a poco la realtà delle cose cambi rispetto al momento in cui è stata fatta una determinata legge, e che l’organismo legislativo ne prenda atto modificandola o riscrivendola ex novo. In particolare, da molte parti si ritiene che la 56/89 sia superata, perché unifica sotto la dizione psicoterapia due realtà affini ma profondamente diverse. A una prima area, sanitaria o diagnosticoprocedurale, appartengono le pratiche di cura di disturbi patologici mediante procedure empiricamente validate per il trattamento di quei disturbi, di competenza esclusiva di medici e psicologi. A una seconda area, formativa o dialogico-processuale, appartengono le pratiche finalizzate alla cura del disagio esistenziale e allo sviluppo delle potenzialità di individui e gruppi (empowerment), esercitate da chiunque abbia ricevuto una formazione adeguata per farlo. In questa seconda area rientrano sia il counseling sia la psicoterapia di indirizzo esistenziale (di matrice psicodinamica o umanistica). Psicologi e medici possono giustamente rivendicare l'esclusiva della psicoterapia scientifica (nel senso delle scienze empiriche), ma non hanno alcun titolo per rivendicare quello della cura esistenziale (che è scientifica anche questa, ma prevalentemente nel senso delle scienze fenomenologiche ed ermeneutiche).
Questa divisione del campo nei due macrosettori che ho sommariamente descritto è sostenuta da una parte degli addetti ai lavori, ma contrastata da un’altra che vede in essa una dicotomia ingiustificata, dal momento che in ogni tipo di trattamento, lo si chiami psicoterapia, psicoanalisi o counseling, si applicano delle procedure, si sviluppano dei processi e si stabilisce qualche forma di dialogo. L’obiezione è sollevata in particolare da coloro che, negando l’esistenza di una differenza sostanziale tra psicoterapia e counseling, e considerando quindi il counseling come una forma di psicoterapia, vorrebbero riservare anche questo alla competenza esclusiva di medici e psicologi. Si fa notare, da questa parte, che la distinzione tra disagio esistenziale e franca patologia è spesso difficile se non impossibile, e che poiché la limitazione della durata del trattamento e degli obiettivi si fa comunemente anche in quella forma di psicoterapia che è detta appunto psicoterapia breve, non può certo valere come criterio distintivo del counseling rispetto a questa. Anche perché l’imperativo della brevità può essere ed è aggirato facilmente. Se per esempio il limite imposto è di dieci incontri, al termine del ciclo si fa il punto e se si è stabilita una buona alleanza di lavoro e – come spesso, se non di regola, accade – i problemi per cui il cliente ha chiesto il trattamento non sono del tutto risolti, o se ne presentano degli altri, il semplice buon senso suggerisce di procedere con un altro ciclo, e poi eventualmente un altro, e un altro ancora... Per contrastare questa prassi, che rende il counseling difficilmente distinguibile da un trattamento psicoterapeutico, un’associazione nazionale di counselor ha imposto l’obbligo di una pausa di cento giorni tra un ciclo di dieci incontri e l’eventuale successivo. Credo sia superfluo sottolineare l’arbitrarietà e l’assurdità di questa regola, che vale però come sintomo della difficoltà di distinguere un tipo di trattamento dall’altro col semplice accorgimento di imporre dei limiti formali.
Se queste obiezioni vengono prese sul serio, ed è bene che lo siano, si vede che è problematico continuare a rifugiarsi nell’affermazione rassicurante che il counseling non è psicoterapia solo perché si occupa del disagio esistenziale e si autolimita nella durata e negli obiettivi del trattamento, come se queste fossero verità ovvie e incontrovertibili. Prendiamo una situazione abbastanza tipica che può presentarsi a un counselor. Il cliente dice: “Mi sento un po’ giù. Il medico mi ha trovato un po’ depresso e mi ha dato del Prozac. Va un po’ meglio, ma capisco che non sarà il Prozac a risolvere i miei problemi. Io ho bisogno di parlare del disagio che vivo quotidianamente in famiglia e sul lavoro. Posso farlo qui con lei?”. Che farà questo counselor? Dovrà dire: “Mi dispiace, lei è depresso, si rivolga a uno psicoterapeuta?” E perché mai? L’aspetto medico del problema è sotto controllo, il medico ha prescritto un antidepressivo. Il disagio presentato dal cliente ha a che fare con le relazioni della sua vita quotidiana, e quindi dovrebbe rientrare pienamente nelle competenze del counselor. A meno di non esigere che questi lavori solo con clienti perfettamente sani: perché anche una gastrite, una colite e una cefalea hanno probabilmente una componente psicosomatica. Di fatto, il disturbo esistenziale e la patologia somatica e psichica si influenzano reciprocamente e si intrecciano regolarmente nei modi più vari.
Data l’impossibilità di isolare in modo minimamente netto il disturbo esistenziale dalle numerose condizioni patologiche concomitanti di cui può essere sia la causa sia l’effetto, se non fosse possibile curare l’uno senza farsi carico delle altre avrebbero ragione coloro che pretendono di riservare la pratica del counseling ai soli medici e psicologi (anzi, sarebbe più giusto dire ai soli medici, dal momento che anche la capacità dello psicologo di fare diagnosi differenziale rispetto a patologie fisiche è dubbia).
Perché invece pensiamo che il counselor, posto che (non diversamente dallo psicologo) invii il cliente dal medico curante al minimo sospetto di patologie concomitanti, possa fare il suo lavoro anche nell’impossibilità teorica e pratica di isolare il disagio esistenziale da disturbi patologici fisici e psichici di ogni sorta? Lo pensiamo perché la cura del disagio esistenziale è una cosa sostanzialmente diversa sia dalla cura medica, sia dalla cura psicologica che su questa si modella (trattamento con procedure empiricamente validate per la cura di disturbi specifici). Se non cogliamo questa differenza sostanziale, non ci sarà possibile distinguere il counseling da una psicoterapia in formato ridotto, una psicoterapia meno questo o quello, ma sempre una psicoterapia.
Per esempio, il documento preparato dall’AssoCounseling per la richiesta di accreditamento delle scuole elenca una serie di orientamenti teorici, quelli più comunemente adottati dalle scuole (Psicoanalitico, Sistemico-relazionale, Cognitivo-comportamentale, Gestaltico, ecc.). E’ facile vedere che sono esattamente gli stessi orientamenti che troviamo nelle scuole di psicoterapia. Se ora il counselor nella sua formazione apprende l’uso degli stessi strumenti teorici e tecnici che si insegnano nelle scuole di psicoterapia, se pure in formato ridotto, e nella sua pratica utilizza quegli stessi strumenti, pur con tutte le limitazioni di tempo e di obiettivi imposte dai regolamenti, sembrerebbe che il suo lavoro non possa distinguersi da una psicoterapia se non per la brevità e la superficialità. Una distinzione che da un lato, come abbiamo visto, è piuttosto fragile e discutibile, e dall’altro farebbe del counselor uno psicoterapeuta di seconda scelta – cosa che non farebbe molto bene alla sua autostima. Per questo è giusto e necessario dire che il counseling non è psicoterapia.
E’ necessario perché è tuttora in vigore una legge che riserva l’esercizio della psicoterapia a medici e psicologi. E soprattutto è giusto, ma a patto di precisare che cosa si intende per psicoterapia, operando la distinzione essenziale tra quel tipo di cura che è giusto riservare a medici e psicologici, e quel tipo diverso di cura – lo si chiami psicoanalisi, psicoterapia, counseling o come si preferisce – che non è un trattamento sanitario, e quindi non richiede affatto una laurea in medicina o psicologia.
Non intendo certamente dire che lo studio dei modelli offerti dalle diverse scuole psicoterapeutiche sia una cosa sbagliata. Al contrario, ritengo che una scuola di counseling debba offrire agli allievi una serie di mappe che gli saranno preziose per orientarsi e muoversi sul terreno della cura. Ma il tipo di movimento su questo terreno sarà sostanzialmente diverso da quello di uno psicoterapeuta la cui pratica è di tipo diagnostico-procedurale, l’unica cosa che ne giustifica l’assegnazione esclusiva a medici e psicologi. Per semplificare, potremmo dire che un counselor e uno psicoterapeuta dello stesso indirizzo teorico possono anche usare le stesse mappe sullo stesso territorio, eppure fanno due cose sostanzialmente diverse, perché i loro obiettivi sono sostanzialmente diversi: la cura del disagio esistenziale in un caso, quella di disturbi definiti con procedure specifiche nell’altro. Dobbiamo allora capire bene in che cosa consiste questa differenza.
Poiché la ragione per riservare la psicoterapia a medici e psicologi non può essere né la formazione medica, che manca agli psicologi, né quella psicologica, che manca ai medici, si deve trovare in qualcosa che è comune a queste due categorie professionali.
E ciò che le accomuna non si trova in altro che nella formazione scientifica, quella della moderna scienza sperimentale, i cui criteri fondativi sono l’oggettività e la riproducibilità.
Ora, la scienza che sta alla base della formazione medica e psicologica ha un ruolo marginale nella cura del disagio esistenziale, in cui la posizione centrale è occupata dal dialogo. La verità rilevante in questa cura non è quella dell’esperimento da cui derivano le procedure tecniche da applicare nella relazione con il paziente, bensì quella che emerge nell’incontro con il cliente, sempre unico e imprevedibile.
E’ significativo che nel counseling si preferisca la parola incontro a quella più tecnica di seduta – per non parlare della visita che appartiene interamente al lessico medico. Naturalmente anche nella cura tecnico-procedurale si attua qualche forma di dialogo e si sviluppa qualche tipo di processo, così come anche nella cura dialogico-processuale si utilizzano delle procedure. Data la compresenza inevitabile di processo e procedure in ogni tipo di cura, la chiave della differenza si trova nel modo di integrare i due versanti dell’impresa. La differenza sostanziale tra i due tipi di cura si coglie in una prospettiva gestaltica di integrazione. Il quadro contiene sempre delle procedure e un processo, ma a seconda di ciò cui scegliamo di assegnare la funzione di figura, e rispettivamente di sfondo, l’immagine cambia radicalmente. Ne risultano due modi profondamente diversi di curare. Il primo è più propriamente un prendersi cura della persona e del suo disagio, indipendentemente dalla forma che questo disagio assume, e che può avere o non avere dei lati chiaramente patologici. Il secondo è una cura specificamente e tecnicamente rivolta al disturbo o al problema presentato.
L’inversione gestaltica tra procedura e processo nei due approcci fa sì che le procedure impiegate dal counselor per favorire l’esplorazione e la comprensione dei vissuti, lo scioglimento dei blocchi, la produzione di esperienze riparative, l’attivazione delle risorse, abbiano in linea di principio un significato nettamente diverso da quello delle procedure impiegate nell’approccio procedurale. Mentre in questo la procedura deve essere applicata in modo sufficientemente protocollare perché la sua efficacia corrisponda a quella testata nell’esperimento (altrimenti sarebbe vanificata la pretesa di scientificità del metodo), nell’approccio processuale qualsiasi procedura prende significati diversi a seconda del contesto in cui è applicata, e quindi viene meno la possibilità di sostenerne la scientificità.
La differenza sostanziale può essere espressa con questa formula: la cura medica si basa sul sapere, quella esistenziale sul non sapere. E’ una differenza stabilita sin dai primordi del pensiero occidentale, da quello che possiamo considerare il primo counselor – Socrate, che così spiegava la sentenza dell’oracolo secondo la quale era l’unico sapiente: tutti gli ignoranti credono di sapere, mentre la sapienza consiste nel sapere di non sapere. Il metodo di Socrate è fondamentalmente lo stesso del moderno counselor: il dialogo, che sospendendo ogni pretesa di sapere apre lo spazio in cui il logos, la verità del processo dialogico, può a poco a poco rivelarsi. I terapeuti che hanno inaugurato la moderna cura esistenziale – Otto Rank, Ludwig Binswanger, Rollo May – hanno confermato la scoperta originaria di Socrate. Il disagio esistenziale nasce dall’identificazione con un ruolo, uno stato, un’immagine – cioè dalla pretesa di sapere, anche se preconsciamente, chi siamo, che cosa vogliamo, di che cosa abbiamo diritto.
Per esempio nell’analisi transazionale queste pretese sono racchiuse nel triangolo di Karpman, i cui vertici sono presidiati dalle figure della vittima, del persecutore e del salvatore. La cura consisterà allora nell’aiutare il soggetto a prendere coscienza delle identificazioni di cui è rimasto prigioniero, non certo per offrirgli identificazioni sostitutive tratte dalle teorie in cui potrebbe essere identificato il curante (che quindi sarebbe a sua volta prigioniero di un sapere), ma per rimettere in movimento il processo esistenziale bloccato. Le diverse mappe di cui il counselor dispone, tratte dai più diversi orientamenti teorici, possono aiutarlo a riconoscere le trappole cognitivo-emotive in cui il cliente è caduto e a rispondere alla sua richiesta di aiuto nei modi più appropriati a quel particolare cliente in quel contesto specifico e in quella fase esistenziale. Ma poi ogni situazione, ogni singolo incontro richiedono delle risposte uniche, che possono essere trovate solo immergendosi in quella situazione con mente sgombra da qualsiasi preconcetto e aspettativa, come suggeriva Freud con il suo celebre consiglio di lasciarsi sorprendere a ogni svolta, e come insisteva Bion con il suo altrettanto celebre invito a lasciare il desiderio e la memoria fuori della stanza di analisi.
Ora, questo approccio dialogico-processuale, così radicalmente diverso da quello tecnico-procedurale della psicoterapia scientifica (sempre nel senso della scienza empirica, non di quella fenomenologico-ermeneutica), accomuna il counselor e diversi altri professionisti della relazione di aiuto, in particolare psicoterapeuti esistenziali, antropoanalisti, psicoanalisti laici. Che differenza c’è tra un counselor e uno psicoterapeuta esistenziale? Nessuna, se fossimo in America. Ma siamo in Italia e dobbiamo tener conto del contesto in cui operiamo. E’ ovvio che un diploma di counselor conseguito da una persona priva di laurea con un corso triennale di settecento ore non può avere lo stesso valore di quello di psicoterapeuta conseguito da un medico o uno psicologo con un corso quadriennale di duemila ore. Tuttavia, se nessuno può mettere in discussione la competenza esclusiva di medici e psicologi per la psicoterapia basata sul modello medico, nulla giustifica l’attribuzione in esclusiva a queste categorie professionali anche della psicoterapia basata sul modello umanistico-esistenziale.
Viceversa, se c’è qualcuno che ha la preparazione adatta per questo tipo di cura sono proprio i counselor, che prendendo coscienza della propria identità culturale possono farne la base per lo sviluppo di una professionalità che superi i limiti attualmente imposti alla loro professione. Occorre pensare a un livello formativo ulteriore, come potrebbe essere un corso biennale di altre settecento ore aperto a chi è in possesso di diploma di scuola triennale di counseling, oltre che di una laurea breve in qualsiasi disciplina, meglio se umanistica.
In questa prospettiva il counseling si sottrae decisamente all’immagine svalutativa di una psicoterapia di seconda scelta per prendere la posizione che gli spetta, di primo livello sulla via della cura del disagio esistenziale che giunge a compimento con un supplemento formativo grazie al quale vengono superati i limiti operativi corrispondenti a una formazione parziale, per una cura senza più limiti di tempo, obiettivi e profondità. Va da sé che questo sviluppo dovrà necessariamente collegarsi a una proposta legislativa che aggiorni e superi la legge 56/89 alla luce della 4/13. A questo esito legislativo si arriverà tanto più rapidamente, quanto più nei counselor crescerà la consapevolezza della loro funzione, del loro valore e dei loro diritti.
Il presente contributo è stato presentato al IV convegno nazionale di AssoCounseling, tenutosi a Milano il 20-21 aprile 2013 (n.d.r.)
Tullio Carere-Comes, Psichiatra Psicoterapeuta, è coordinatore per l’Italia della Society for the Exploration of Psychotherapy Integration (SEPI)
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titolo: Il counseling e oltre
autore/curatore: Tullio Carere-Comes
argomento: Professione
fonte: AssoCounseling
data di pubblicazione: 09/05/2013
keywords: counseling, psicoterapia, differenze
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